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Short Smartphon Stories

Il Cinematografo che non c’è

di Gianni Nigro


Infanzia Anzianità
Nei primi tempi, a Milano, ci perdevamo ogni volta che si usciva.
   Nei primi tempi Milano ci sembrava un altro mondo, a due sole dimensioni. Talvolta Milano si nascondeva dentro a una nebbia biancastra e bagnata. Talvolta si svelava sotto un sole polveroso.
   Milano era per noi un labirinto di strade non ortogonali, di piazze rotonde da cui le strade partivano a raggera, un labirinto dentro al quale era facile perdersi per interi pomeriggi, per interi pomeriggi navigavamo con la Seicento in quel labirinto sconosciuto.
   La Seicento l’aveva comperata mia madre molti anni prima, con la parte di una eredità, quando ancora abitavamo a Livorno.
   Eravamo in pochi, a Livorno, ad avere la macchina. E le strade di Livorno degli anni Cinquanta erano quasi deserte e si trovava posteggio dovunque e poi a Livorno, nella parte Sud, c’erano due sole strade, il Lungomare e l’Aurelia, ed era facile rigirarsi.
   Poi mio padre s’intestardì a prendere la patente, ma era un artista totale, era negato per una cosa pratica come guidare una macchina e insomma fu bocciato due volte ma alla fine la patente gliela dettero, forse per toglierselo dai piedi.
   Così, quand’eravamo tutti e tre insieme, c’era lui al posto di guida.    Collezionava litigate con gli altri automobilisti, al limite con la scazzottatura, e nel migliore dei casi, con le gomme ormai lisce, fece due testa-coda, per fortuna senza conseguenze.
   L’emigrazione a Milano era stato un di mio padre. Per mia madre era un incubo, per me fu in un primo tempo una novità, poi la presa di coscienza che avevo perduto per sempre la famiglia, mia nonna, i quindici cugini, gli zii, e il mare, e l’odore dei pini, del salmastro, e i giorni di sole squillante, e l’ebbrezza che dava il libeccio e la magica atmosfera delle città di mare.
   A Milano c’eravamo arrivati, dopo un intero giorno di viaggio, in un grigio giorno di Gennaio del 1959. La nostra prima Milano era una Milano di sera, fredda e nebbiosa.
   Era strana, Milano, ai miei occhi di bambino. Erano strane le luci dei lampioni, l’aria sembrava piatta, i suoni erano senza eco, il cielo era basso.
   Ma di domenica pomeriggio, nonostante i soldi fossero pochissimi, ci concedevamo una puntatina al cinema. E quello era il momento più bello dell’intera settimana.
   Ma per trovare il cinema!
   Mia madre passava il dopopranzo domenicale a studiare la lista dei film sul giornale e alla fine decideva. Guardavano la carta topografica della città, distesa sul tavolo del salotto-soggiorno-studio (mio padre ci dipingeva e la stanza aveva un divano, due poltrone, una radio appoggiata su di una sedia, un tavolo e decine di tele, dipinte, non dipinte, in preparazione, che in quella non grande stanza, si accatastavano dovunque) e una volta individuata la posizione del cinema, si partiva all’avventura. Spesso dentro una nebbia da tagliare col coltello.
   Strade tutte uguali, viali alberati senza fine, le rotonde (che a Livorno non esistevano), dalle quali le vie partivano a raggera … era facile non raccapezzarcisi, per noi abituati alla geometria stradale all’americana della città di Livorno.
   Mia madre teneva la cartina di Milano sulle ginocchia e mio padre guidava seguendo le istruzioni di mia madre.
   Una domenica pomeriggio d’inverno, in una nebbia allucinante, dopo un’ora e mezzo riuscimmo finalmente a raggiungere una sala cinematografica situata dall’altra parte della città, vicina alla circonvallazione.
   Era un edificio bianco a forma più o meno di cubo e conteneva la sala cinematografica in cui proiettavano il film Le vacanze di Monsieur Hulot.
   Quella domenica rimase, nella mia fantasia infantile, come mitica.
   Il fascino di quel film senza parole, in bianco e nero, i suoi ritmi lenti, la poesia che lo permeava, l’epica colonna sonora, l’entusiasmo dei miei genitori una volta tanto allegri e felici, il ritorno verso casa, dove avremmo riacceso la radio e cenato contenti prima di riprendere io la scuola, mia madre il lavoro di impiegata e mio padre la sua attività che consisteva nel levigare i legni, assemblarli in telai, inchiodarvi le tele ben tirate, preparare le tele con pastoni cotti per ore sul fuoco e maleodoranti, e infine di stendervi sopra le tinte coi pennelli.
   Questa sala cinematografica era rimasta indelebile nella mia mente. Il fascino di un film indimenticabile, il ricordo di una domenica felice assieme ai miei genitori, ma anche quello strano edificio, un cubo bianco, cubico sì anche se più largo che alto … Pur continuando ad andare al cinema con i miei genitori e più avanti con i miei amici e compagni di scuola, non mi capitò più di tornare in quella sala cinematografica, della quale tra l’altro finii per dimenticare anche il nome e l’esatta ubicazione.
   Avevo diciannove anni quando mi comperai la prima macchina, una Cinquecento usata, coi sudatissimi risparmi di un intero anno.
   Ricordavo vagamente che quel cinema era dalle parti della circonvallazione est, nei pressi di Città Studi. E siccome mi trovavo ogni giorno in quella zona per andare all’Università, iniziò a insinuarsi nel mio pensiero, sempre più insistente, il desiderio di ritrovare l’edificio.
   Ogni tanto effettuavo un tentativo, uscendo da una lezione di Anatomia o di Chimica. Percorrevo la circonvallazione lentamente, svoltando nelle stradine laterali in direzione della città, ma sempre fallendo la ricerca.
   Avevo molte altre preoccupazioni, nella mente. Per cui rinunciai alla ricerca.
   Da un lato studiavo con successo ma amavo alla follia la narrativa, e spendo più della metà del mio tempo a leggere gli autori che a scuola non ci avevano fatto leggere.
   Poi ero un po’ stanco della metropoli e volevo trasferirmi, ma il mio desiderio si dibatteva tra due ipotesi, il ritorno alla città natia o la casa in campagna di mia madre e dei suoi parenti, in Romagna, regno di ogni divertimento.
   Gli anni passavano, alla velocità della luce. Le complicazioni aumentavano e scoprivo ogni giorno di più che la vita da adulto, tanto desiderata da adolescente, era invece una vita sempre più complicata, nello studio, nel lavoro, nei sentimenti e in tutto il resto.
   Dimenticai quasi del tutto quell’edificio ma non il ricordo di una domenica felice, di una dolce, dolcissima domenica pomeriggio invernale, in compagnia dei miei due adorati genitori.
   Mi capitò anche di rivedere il film di Monsieur Hulot, ovvero di Jacques Tati, in televisione. Ma di tornare a cercare l’edificio del cinematografo non ci pensavo più. Magari era stato abbattuto.
   Magari ora al suo posto c’era un palazzone di dieci piani.
   E gli anni continuavano a scorre via.
   Bimbetto di dieci anni d’età in quella lontana domenica incantata.
   Uomo di ormai quarantasei anni quando, dopo tante vicissitudini, alcune buone, altre meno buone, qualcuna pessima, come la perdita di mio padre, decisi di traslocare nella parte est della città.
   Per combattere i chili che sempre più, con l’età, assalivano con crescente aggressività il mio peso-forma, avevo preso l’abitudine di dedicare un’oretta della mia giornata a una veloce e liberatoria passeggiatina.
   Lasciavo il computer, prendevo le chiavi di casa e uscivo, senza soldi, senza documenti, con un paio di scarpe da ginnastica.
   Sgambettavo per la grande piazza alberata e mi infilavo nelle vie collaterali.
   Un giorno mi ritrovai in una strada dall’aspetto ancora molto periferico che portava dritto alla circonvallazione più esterna. Voltai gli occhi verso gli edifici situati dalla parte opposta della via e il mio sguardo incontrò una strana costruzione, assolutamente bianca, di forma cubica, anche se la base era più larga dell’altezza. Non vi era nessuna scritta sul frontone però l’ingresso, molto ampio e a vetri, svelava un interno illuminato.
   Mi fermai ad osservare meglio. E come per incanto un vortice di ricordi mi travolse la mente.
   Era … era forse … quello?
   Era forse l’edificio del vecchio cinema in cui eravamo andati a vedere il film di Tati in quella domenica di fiaba?
   Certo non era più un cinema. Ma a pensarci bene, quelle volte in cui, tanti anni prima, avevo percorso in Cinquecento le viuzze della zona alla ricerca del cinematografo, non ero mai entrato in quella strada.
   Macchinalmente traversai la via ed entrai. Vi era un bancone e una ragazza e subito le chiesi: «Mi scusi, lei sa per caso se qui c’era un cinema?»
   La giovane sorrise gentilmente: «Mi sembra di averne sentito parlare. Ma da anni questa è una scuola per parrucchieri».
   «Ah … una scuola … però forse era un cinema?»
   «Sì, signore, mi sembra proprio di sì. Molto tempo fa».
   A quella volta, le mie passeggiate comprendevano sempre un passaggio davanti al cubo bianco in cui avevo vissuto una delle domeniche più felici della mia vita.
   Per più di quindici anni bastava la visione di quel cubo a ridarmi un minimo di fiducia nella vita. Poi un giorno mi accorsi che la serranda era sprangata da troppo tempo e avevano tolto qualsiasi indicazione che potesse indurre alla presenza nell’edificio della scuola per parrucchieri o per qualsiasi altra cosa.
   Finché, all’inizio della più strana estate della mia esistenza, alla fine di una primavera autunnale e all’inizio di un’estate senza estate, arrivarono orrende macchine per la demolizione del cubo bianco.
   L’estate senza estate è appena finita. Questi ultimi giorni di settembre sono freschi o quasi freddi quasi fossimo nella seconda metà di ottobre. E il cubo bianco non esiste più.
   Quando transito lungo quella strada mi volto dall’altra parte. La vista di quel vuoto spaventoso mi deprime. È come se fosse finita un’epoca. È come se fosse finita la mia epoca.
   Mi volto dalla parte opposta, dove il giardino condominiale ospita delle stupende piante di ortensie. Ma anche queste, per la prima volta, a causa dell’estate senza estate, sono marcite, soffocate da fiumi di pioggia.
   E rientrando a casa, mi sento afferrare da una crisi di pianto. Ma un attimo dopo è già passata.
   Forse, chissà, esiste un’altra dimensione dove a bordo di Una Seicento andrò con i miei genitori, una domenica pomeriggio d’inverno, in un cinematografo a vedere Le vacanze di Monsieur Hulot.